In genere, le epiche battaglie dell’antichità ci evocano scenari lontani, remoti da quelli che consideriamo il nostro territorio. Tuttavia esattamente tra il 30 e il 31 ottobre del 552 d.C., le terre della penisola Sorrentina e della piana Nocerina furono teatro di uno scontro epocale, tra i più sanguinosi mai registrati nella storia: la battaglia dei Monti Lattari. Questo conflitto segnò la conclusione di una lunga e tumultuosa guerra, nota come guerra greco-gotica (533-553 d.C.), che per quasi due decenni infiammò l’Italia con la sua ferocia. Da un lato, gli Ostrogoti, che dopo il crollo dell’Impero Romano d’Occidente si erano stabiliti nella penisola, e dall’altro i Bizantini, decisi, su ordine di Giustiniano, imperatore dell’oriente romano, a riconquistare l’Italia e restaurarne l’antica grandezza.
All’inizio del 552, gli Ostrogoti subirono una pesante sconfitta in Umbria ad opera dei Bizantini, guidati dal valente generale Narsete. Sembrava che la guerra fosse sul punto di concludersi. Tuttavia, il fiero e combattivo popolo ostrogoto, nonostante la morte del loro re Totila in battaglia, anziché arrendersi, elesse un nuovo sovrano, Teia, che decise di affrontare ancora una volta i bizantini e caricare vittoria. Temendo che i Bizantini potessero impadronirsi del tesoro ostrogoto custodito a Cuma, Teia marciò verso la Campania con il suo esercito per espugnare l’assedio bizantino a cui la città era sottoposto. Tuttavia, fu intercettato da Narsete e bloccato nella pianura nocerina, ai piedi dei Monti Lattari. Per un certo periodo, i due eserciti si fronteggiarono, separati dal fiume Sarno, un ostacolo invalicabile. Incalzati dai Greci guidati da Narsete, si attestarono sulla sponda sinistra del Sarno, alla foce del fiume, nei pressi dell’odierna Castellammare. Una flotta garantiva loro, al tempo stesso, la protezione del fianco sinistro e i rifornimenti. L’esercito di Narsete, giunto alle loro spalle si accampò dall’altro lato del fiume. Stettero così per circa due mesi, con i Bizantini che, non osando attraversare il fiume, si limitavano ad erigere delle torri di legno dalle quali bersagliavano col tiro delle macchine il nemico. L’arrivo di una flotta imperiale mise in fuga quella dei Goti, ai quali venne così a mancare il valido appoggio navale. Questo porto i goti a privarli di viveri, la situazione si fece sempre più tesa.
Nel frattempo Narsete, risalendo il fiume, andò ad attraversarlo più a monte nei pressi del guado di Scafati, andando così a bloccare la strada Popilia, che avrebbe potuto costituire una via di fuga verso sud per i Goti. In preda alla disperazione, gli Ostrogoti presero la drastica decisione di salire sui Monti Lattari, sperando di trovare risorse che li potessero sfamare. Con fatica e determinazione, si arrampicarono verso le vette che si estendevano tra il Sant’Angelo a Tre Pizzi e il Cerreto. Tuttavia, una volta raggiunta la cima, si resero presto conto che quelle aspre terre non avrebbero potuto fornire loro abbastanza cibo. La prospettiva di scendere verso il versante amalfitano li avrebbe condotti invece a una conclusione altrettanto desolante: sarebbero morti di fame, intrappolati tra le scogliere e il mare.
Fu così che Teia, il loro re, prese una decisione risoluta. Ridiscendendo nella pianura nocerina, decise di dare battaglia ai piedi dei Monti Lattari. Il luogo esatto della battaglia ancora oggi porta il nome di Pizzaute (“Il pozzo dei Goti”). Per gli Ostrogoti, era un’azione estrema: o avrebbero vinto contro ogni probabilità, o sarebbero caduti eroicamente sul campo di battaglia.
L’alba del 30 ottobre del 552 vide l’inizio di uno scontro sanguinoso, un corpo a corpo feroce che si sviluppò tra le terre di Nocera e Sant’Antonio Abate – Angri. I Bizantini, determinati a colpire il cuore degli Ostrogoti, puntarono direttamente contro Teia, convinti che la sua caduta avrebbe portato alla resa dei barbari. Teia, valoroso e coraggioso, affrontò la furia del nemico, schivando abilmente le frecce degli arcieri mentre con la sua spada faceva strage di soldati bizantini. Persino quando lo scudo si riempiva di frecce, un altro era prontamente sostituito da uno dei suoi uomini, e Teia continuava indomito la sua lotta. Tuttavia, durante uno di questi scambi di scudi, un arciere riuscì a colpire Teia con un dardo mortale, facendolo cadere a terra. I Bizantini, tagliando la sua testa, la issarono su una picca, mostrandola agli Ostrogoti come segno della morte del loro re.
Nonostante questa vista terribile, gli Ostrogoti non si arresero. Dopo una pausa notturna, necessaria a causa dell’oscurità, ripresero la lotta con determinazione il 31 ottobre. Per due giorni interi, quella pianura, ora densamente popolata e attraversata da strade trafficate, fu il teatro di un conflitto senza quartiere. Il fragore delle armi, le grida di guerra e i lamenti dei feriti riempirono l’aria, mentre il suolo si tingeva di rosso del sangue dei caduti. Solo alla sera del 31 ottobre, dopo una lotta eroica, gli Ostrogoti furono costretti ad arrendersi, ponendo fine a una delle battaglie più cruente e decisive della storia.
La battaglia dei Monti Lattari segnò la fine del dominio ostrogoto in Italia, riportando l’intera penisola sotto il controllo dell’Impero Romano. Tuttavia, questo ritorno all’egemonia imperiale fu di breve durata, poiché nel 568 i Longobardi fecero il loro ingresso, aprendo un nuovo capitolo nella storia italiana. Da quel momento in poi, l’Italia divenne un mosaico politico frammentato, una realtà di divisioni e frammentazioni che perdurò fino al 1861.
I Longobardi, con le loro conquiste, presero il controllo di alcune parti dell’Italia, mentre altre rimasero sotto il dominio bizantino. Queste zone bizantine, tuttavia, gradualmente si resero indipendenti, contribuendo alla frammentazione politica del paese. Questo fenomeno si verificò anche a Roma, dove i pontefici assunsero un ruolo sempre più politico nel governo della città. Lo stesso accadde a Venezia e, in particolare, ad Amalfi.
Amalfi, approfittando della lontananza degli imperatori bizantini, si trasformò rapidamente in Repubblica Marinara di Amalfi, pur mantenendo solo un legame nominale con Costantinopoli. Questi cambiamenti politici segnarono un nuovo capitolo nella storia.
Le cronache di Procopio di Cesarea
L’unica dettagliata descrizione di quegli avvenimenti è fornita dallo storico bizantino Procopio di Cesarea nel suo De bello gotico. Di seguito l’estratto dalla sua opera.
“Alle falde del Vesuvio trovansi sorgenti di acqua potabile dalle quali formasi un fiume di nome Dracone (Sarno), il quale scorre nei pressi della città di Nocera. Sulle due rive di questo fiume posero accampamento allora ambedue gli eserciti. Il Dracone ha un piccolo alveo; pur nondimeno non e transitabile né a cavallo, né a piedi, poiché l’alveo angusto scava esso molto profondamente, facendo da ambo le parti emergere come pensili in alto le rive. Come questo avvenga, se per la natura del suolo, se per quella dell’acqua, non saprei dire. I Goti, occupato il ponte sul fiume, dopo essersi presso a quello accampati poservi torri di legno, con varie macchine, fra le quali le così dette «baliste», per poter molestare di là e colpire dall’ alto i nemici. Venire alle mani corpo a corpo era impossibile, trovandosi di mezzo, come dissi, il fiume; quindi gli uni e gli altri appressatisi quanto più poteano alla propria riva, combattevano per lo più a colpi di freccia. Qualche singolar certame però avvenne pure nel caso che qualche Goto per isfida passasse il ponte. Cosi i due eserciti passarono due mesi. Finché i Goti ebber colà in mano il mare, poterono resistere introducendo per nave le vettovaglie, dacché trovavansi accampati poco lungi dal mare. Poscia però i Romani impadronironsi di tutte le navi dei nemici per tradimento di un Goto che stava al comando di quelle, ed inoltre ad essi giunsero innumerevoli navi dalla Sicilia e dalle altre parti dell’impero. In egual tempo, Narsete poste sulla riva del fiume torri di legno produsse grande scoraggiamento fra gli avversari. Atterriti per questo i Goti e travagliati dalla penuria del vitto rifugiaronsi su di un monte vicino, chiamato dai Romani in lingua latina Monte del Latte (« M. Lactarius »), ove i Romani non poterono inseguirli, impediti dalle difficoltà del luogo. Ma ben presto i barbari si pentirono di esser saliti colà, dacché tanto più mancava loro il vitto, non avendo alcun modo di rocacciarsene per sé e pei cavalli. Quindi sembrando loro preferibile morire in battaglia anziché di fuggire, inaspettatamente mossero in massa contro i nemici e d’ improvviso piombarono loro addosso. I Romani stettero ad affrontarli come potevano, senza disporsi in ordine secondo i vari duci, reggimenti e compagnie, né in alcun modo distinguersi fra di loro, e senza neppure prestare orecchio agli ordini che venivano dati nel conflitto, ma resistendo di tutta forza ai nemici come capitava. I Goti, lasciati i cavalli, si miser tutti a piedi, disposti di fronte in ranghi profondi, ed i Romani, visto ciò, lasciati pur essi i cavalli, si disposero alla stessa maniera. E qui io verrò a descrivere una battaglia memorabile, nella quale Teia pel valore che dimostrò non rimase inferiore ad alcuno degli eroi. I Goti veniano spinti all’ardire dalla disperazione in cui erano. I Romani, quantunque li vedessero quasi forsennati, resistevano con ogni potere, arrossendo di cedere dinanzi ad inferiori. Gli uni e gli altri gittavansi con furore su quei che avean vicini, quelli cercando la morte, questi la gloria. I Romani, quantunque li vedessero quasi forsennati, resistevano con ogni potere, arrossendo di cedere dinanzi ad inferiori. Gli uni e gli altri gittavansi con furore su quei che avean vicini, quelli cercando la morte, questi la gloria. La battaglia incominciò al mattino, e Teia, tenendosi in vista di tutti, coperto dallo scudo e colla lancia in resta, primo con alcuni pochi si pose in fronte alle schiere. I Romani, al vederlo, pensando che lui caduto, il conflitto sarebbe per essi tosto risolto, tutti quant’ eran più valorosi in gran numero si unirono ad aggredir lui; e quali vibravangli contro la lancia, quali tiravangli freccie. Egli, coperto dallo scudo, riparavasi da tutti i colpi, e facendo impeto subitamente, molti uccideva e quando vedea che Io scudo era tutto pieno di dardi rimastivi infitti, passatolo ad uno dei satelliti ne toglieva un altro. Combattendo in tal modo, era già arrivato ad un terzo della giornata, quando dodici dardi trovandosi infitti nel suo scudo, non potea più muoverlo a talento e respingere gli assalitori; chiamò quindi in fretta uno dei satelliti senza lasciare il posto, né indietreggiare neppur di un dito, né lasciar avanzare i nemici; né si volse neppure, né appoggiò le spalle allo scudo, né si mise di fianco, ma come se aderisse al suolo, ivi stette fermo collo scudo, uccidendo colla destra, tenendo addietro colla sinistra, e chiamando a nome il suo satellite. E quegli venne collo scudo, ed egli tosto lo prese in cambio dell’altro ingombro dai dardi. In quel momento rimasegli per un istante scoperto il petto; ed il caso fece che un dardo lo colpi per modo che subito ne venne a morte. E i Romani levata in alto su di un’ asta la sua testa la recarono attorno mostrandola ad ambedue gli eserciti ; ai Romani perché più prendesser coraggio, ai Goti perché smessa ogni speranza cessassero dalla guerra. Pur nondimeno i Goti non ismisero di combattere, ma seguitaron la pugna fino a notte, quantunque sapessero che il loro re era morto. Fattasi poi notte e separatisi, gli uni e gli altri rimaser colà pernottando colle armi indosso. Il dì seguente levatisi all’ aurora, ordinaronsi alla stessa maniera, e combatterono fino a notte senza cedere da ninna parte, né volger le terga, né indietreggiare, quantunque da ambedue le parti ben molti rimanessero uccisi; ma inferociti dal reciproco livore erano intenti all’opera: i Goti, ben sapendo di combattere la suprema battaglia; i Romani, sdegnando di esser da loro superati. Per ultimo però i barbari mandarono alcuni loro maggiorenti a Narsete, dicendogli essersi ormai accorti che Iddio era contro di loro ; poiché sentivano la forza che li avversava e argomentando dai casi avvenuti essi arrendevansi alla evidenza dei fatti, ed ormai volean rinunziare a quella lotta, non però facendosi soggetti dell’imperatore, ma vivendo indipendenti insieme con alcuni altri barbari. Pregavan quindi i Romani di conceder loro una pacifica ritirata senza esser loro avari di benigno riguardo, ma facesser loro dono per viatico di tutti i danari di loro proprietà che già prima ciascun di essi avea deposti nei castelli d’ Italia. Narsete pose tali richieste in deliberazione; e Giovanni di Vitaliano raccomandava di annuire a tal preghiera, e di non pugnar più oltre con uomini bramosi di morire né esporsi a quella audacia che genera la disperazione della vita, e riesce funesta così a coloro che ne sono invasi come a coloro che le si oppongono; « poiché », diceva, « ai prudenti basta il vincere; il volere stravincere potrebbe volgersi in danno». Piacque il parere a Narsete e fu convenuto che i barbari, quanti ne rimanevano, si prenderebbero tutti gli averi lor propri e subito ritirerebbersi da tutta Italia, né mai più in alcuna maniera muoverebber guerra ai Romani. Intanto mille Goti, usciti dall’ accampamento, eransi recati alla città di Ticino e nei paesi al di là del Po, avendo a capo, oltre ad altri duci, Indulfo, già da me ricordato. Tutti quanti gli altri, prestato giuramento, impegnaronsi pei patti convenuti. E cosi i Romani occuparono anche Cuma e tutti gli altri castelli, ed insieme venne a termine il decimottavo anno di questa guerra, di cui Procopio scrisse la storia.”
(La guerra gotica di Procopio di Cesarea, ed. e traduz. a c. di C. Comparetti, 3 voll., Roma 1895, vol. III, pp. 261 e ss.)